Nella Terra di Eolo
Le terre che si trovano incastrate tra Emilia-Romagna, Piemonte e Liguria sono diventate una zona sensibile alla nostra sete di avventura e ricerca: una regione piena di muschio come la Contea e castelli incastonati nella roccia, fierissimi a vegliare sulla vallata, mentre alle spalle di quel pezzo della Pianura Padana c’è il mare in sottofondo.
Stavolta abbiamo deciso di spingerci più in fondo (io dico così ma in realtà è la prima volta che ci vado e non so niente di questa zona) perché rimane in testa come chimera l’Alfiere Nero, che è un po come il nostro Moby Dick; quindi, oltre ad approfittare di un sole magnifico e della possibilità concreta di mettere i piedi sulla neve (anche tendente al solido), con l’equipaggiamento per farlo, bisognava salire in cima ai monti tra i più alti della zona, Ebro & Chiappo, per sperare di scrutare col binocolo anche solo un’ombra nera sfuggente (abbiamo invece visto solo vagamente meglio che a occhi nudi un osservatorio e delle strane strisce nere sul costone di una montagna).
L’assenza di Chef a causa di impegni da chef ci ha permesso di affrontare la scalata anche se il rifugio lì nei dintorni sarebbe stato aperto solo da settimana dopo: certo, la presenza della tappa al rifugio solo un cretino o un ladro la disprezzano, ma alla fine noi cerchiamo di essere irreprensibili e anche solo una galletta di riso ci basterebbe per arrivare in cima.
Ce ne faremo una ragione: Zumba, il nuovo arrivato, è palesemente il più serio e affidabile e abbiamo con noi anche il mio amico Andrux, un altro squalo di montagna (sarebbe l’equivalente del lupo di mare), un parallelepipedo di muscoli che dopo 3 anni di arrampicata con una mano scala le pareti, con l’altra scrolla su Instagram.
I presupposti dell’epico ci sono, quindi io, Andrux, Krum, Pelo, Goreski e Zumba ci incontriamo al solito checkpoint per comprare i panini e discutere sul nome della lonza e della coppa: posteriori ricerche hanno stabilito che il fraintendimento proviene da una mia superficialità: la lonza e la coppa sono entrambi salumi ricavati dal collo e dalla spalla del maiale, mentre la coppa di testa è solo un groviglio di parti del corpo di scarto dell’animale e solo un primate come me può giudicarlo forse il suo affettato preferito.
In realtà la discussione è avvenuta solo quando abbiamo tirato fuori il pranzo ma nella mia mente c’è stata anche prima ed è durata qualche frazione di secondo prima di chiedere al salumiere.
Partenza
Abbiamo davanti ben 1h e 40 di viaggio divisi in due macchine, la nostra (io Andrux & Krum) era la macchina del groove e del metallo, abbiamo quindi passato tutto il tragitto a constatare come i nostri gusti musicali fossero simili e a crogiolarci in tempi dispari, chitarre micidiali e acuti in farsetto impossibili da replicare ma noi ci siamo riusciti perché siamo fenomenali.
Il viaggio in sé, come prevedibile, non ha regalato delle emozioni particolari: dopo esserci fermati al volo a fare benzina e a bere il primo caffè della giornata affianco ad un omone immenso con dei baffi alla Wario, abbiamo attraversato il Po e le distese di verde circostanti, finalmente visibili dopo aver ripreso fiato dalla nebbia.
Scendendo verso sud abbiamo iniziato a prendere quota e a passare attraverso i primi paesini in salita, quelli con una densità abitativa di signori anziani affacciati sulla strada con la sigaretta/persone = 1, sempre molto caratteristici e adorabili alla fine, uno di questi si chiamava Cegni, in realtà questo nome da un po’ la sensazione di un posto dove potrebbe succedere un fatto di cronaca nera che finisce sul TG1.
La cosa ha iniziato a farsi un po’ più interessante quando abbiamo iniziato a salire i tornanti e i primi mucchietti di ghiaccio comparivano ai lati della strada, dentro la Punto eravamo baciati dal sole come se fossimo in una serra che si muoveva, il punto dove arriviamo è proprio davanti al cartello dove finisce Piacenza ed inizia Alessandria.
Inizio cammino
Appena apro la portiera mi sento addosso un vento che spazzava via l’aria in maniera assurda ed e ho realizzato in 0 secondi che quel vento era anche freddo, molto più freddo di quello che avessi pensato, dato che in realtà non c’avessi pensato e basta: avevo oltre al pile solo una giacca da barca della Tribord che ho comprato a caso da Decathlon che però alla fine si è rivelato un buon acquisto, anche se in quella circostanza, mi sarei dovuto bardare.
Subito i primi passi rivelano il tipo di scenario che sarebbe stato quello principale durante tutto il cammino: una distesa di sassi, fango, ghiaccetto ed erba secca, sferzata da destra verso sinistra secondo il nostro senso di marcia da una raffica continua e gelida di vento, che non ti lasciava neanche sentire bene cosa ti dicessero le altre persone.
Siccome partivamo già da un’altitudine considerevole e dato che quella via che avevamo preso era una sorta di direttissima, sin da subito camminavamo in cresta che, seppur non ripida o vertiginosa, rimaneva comunque totalmente scoperta da ogni riparo al vento.

Ci è voluto poco man mano che salivo a realizzare che forse per come ero vestito sarebbe stata una follia finire il cammino senza coprirmi di più, sarei dovuto tornare indietro se non fosse che Krum, che è solito fornire l’oggetto giusto al momento giusto, tira fuori dallo zaino una maglia termica.
L’unico modo che avevo per indossarla prima che le mie braccia si congelassero era sdraiarmi in alcuni solchi che c’erano nel terreno, che tagliavano da su verso giù e che probabilmente erano stati scavati dall’acqua poi ghiacciata poi scioltasi, in modo tale da avere un riparo dal vento, sporcarmi un po’ i pantaloni per testimoniare il gesto e sentirmi improvvisamente bersagliato dall’artiglieria nemica, Krum nella trincea a preparare la maglia, Zumba ad affrontare i colpi in pieno petto affinché questa non volasse via nel passaggio. Mi sono gasato tantissimo.

Da quel momento in poi il freddo è diventata solo una challenge, non un impedimento.
Picco 1
Lungo il cammino da un certo punto in poi si trovavano degli spiazzi sul lato sinistro del percorso con dei cartelli per le varie direzioni (tutti pieni di aghi di ghiaccio troppo cattivi) e delle bacheche che mi sembra parlassero dell’orientarsi in montagna, ma alle prime due avvicinarsi significava buttarsi nelle fauci del vento e quindi non mi sono avvicinato a leggere.

Dopo una salita che era stata faticosa unicamente per quel vento e resa possibile solo dal fatto che il sole era potente, raggiungiamo la cima del Monte Chiappo e li, nel punto più immerso nella potenza del vento, una statua di un monaco falegname (sembra) con l’asso di bastoni e un piccone nelle mani, anche lui tutto laminato con il ghiaccio.
Dopo un minuto di preghiera prostrati a terra, abbiamo fatto un po’ di foto al ghiaccio prima di staccarne qualche stalattite e mangiarcela per purificarci dentro.

Nonostante la riluttanza nell’abbandonare quella santissima apparizione, decido di bussare alla porta di un rifugio che era poco distante e che sembrava pure lui un apparizione: mi ritrovo in un’ampia sala con una stufa subito sulla destra, lunghi tavoli di legno e un bancone sulla sinistra, erano già arrivati due ospiti prima di noi e il loro cagnolone mi viene ad annusare tutto tranquillo.
È finalmente il momento per i guerrieri di rifocillarsi sia le membra con una riscaldata e un caffè lungo che lo spirito con una sessione senza pretese di cantautorato italiano alla chitarra con varie foto successive (perché alla fine anche noi volevamo un po’ sentirci Renato Zero).
Dopo un po’ che i nostri animi si stavano ammollendo, Pelo pensa a riportare tutti con i piedi per terra ricordandoci che siamo praticamente all’inizio della nostra traversata e, appena siamo usciti non ci sembrava possibile, risentendo di nuovo il vento addosso, che eravamo stati così possenti, e di nuovo con la stessa possenza puntavamo all’altra cima.
Picco 2
Il sentiero scorreva sempre più o meno uguale a se stesso, il terreno era molto più ricoperto dell’erba secca che, ammorbidita dalle acque dei giorni precedenti, formava una sorta di tappeto in certi punti: stavamo scendendo in una discesa con una pendenza docile come quella della salita, con la sola (non trascurabile) differenza che erano i cuscinetti di neve e ghiaccio che si trovavano proprio sul sentiero da calpestare, quindi, se prima per me e Pelo prima poteva esserci solo qualche infelice circostanza che ci poteva portare a non incastrare bene il piede sul tracciato (data la grande maestria), dopo che ci siamo vestiti dei ramponcini di Decathlon entry level ai piedi, un albero sarebbe stato sradicato più facilmente di noi.
Dopo circa 5 metri dal primo mucchietto la neve è poi sparita in buona sostanza per tutta la gita lasciando che i ramponcini non servissero assolutamente a nulla, io li ho comunque lasciati ai piedi perché non sapevo dove metterli.
In ogni caso, il nostro ritmo, che ormai accompagnava la curvatura della montagna la quale iniziava a puntare verso l’alto con grande calma ed ampiezza, era scandito e regolare (apparte l’inciampo di Goreski) e ormai procedeva in sintonia con la natura; nel bel mezzo della monotonia del paesaggio che ci circondava avvistiamo in lontananza sul percorso un oggetto rettangolare di metallo, era una vasca piena d’acqua pronta per farci giocare con il ghiaccio e farmi usare i ramponcini, era anche un mini riparo dal vento. Per questo di nuovo abbiamo un po’ tergiversato a continuare.
Sapevamo, anche perché lo vedevamo, che dal quel momento la salita sarebbe stata decisamente più severa, ma eravamo comunque arrivati freschi e carichi: inoltre la salita sarebbe durata di meno e saremmo arrivati alla fine.
Ad un certo punto sono andato a cercare Andrux al punto in cui era arrivato (palesemente perché era vestito totalmente di rosso, anche le scarpe, e serviva un po’ come faro per la squadra) per arrivare insieme a lui alla vetta, sputando un po’ un polmone in realtà; qualche metro sotto la croce della cima c’era appollaiato il signore di mezza età che ha completamente platinato la zona e che per quanto ne sapevo io poteva pure essere l’Alfiere Nero.
Vado quindi a parlarci e mi faccio indicare i punti geografici dei confini regionali, mi sembrava alquanto ambiguo chiedergli se fosse l’Alfiere Nero, quindi me ne sono andato soddisfatto della conversazione.

Era finalmente arrivato il momento di fermarsi al checkpoint, goderci il pranzo e i dolcetti offerti in tributo dalla mamma di Goreski alla mia persona, ma distribuiti equamente alla compagine, per mia incommensurabile magnanimità d’animo.
Dopo esserci lasciati andare a quel cazzeggio che ci potrebbe essere sotto l’ombrellone al mare, siamo caduti nello stesso sonno da digestione/beatitudine per un’ora e qualcosa credo.
Ritorno
Abbiamo cominciato ad avviarci ancora un po’ assopiti prima di essere presi a schiaffi dal vento, ci aspettava tuttavia una tratta per il ritorno decisamente più breve e tutta in discesa: passavamo in un sentiero più in basso sul versante che si prendeva tagliando verso il basso poco dopo le vasche, che tagliava verso il punto di partenza: avevamo ora anche un riparo dal vento alla nostra sinistra. In quel punto era meno entusiasmante la vista ma il percorso si distingueva per una vegetazione più fitta e più neve nella prima parte: abbiamo anche attraversato un boschetto e bevuto un po’ di acqua fresca di montagna che ci ha fatto venire a tutti lo stimolo di fare la pipì.

Eravamo a quel punto un po’ stanchi e non ci è dispiaciuto tornare al campo base, nonostante quel sole e quella pace ci stessero cullando come dei poppanti.
I tornanti hanno messo a dura prova le performance della mia auto, il traffico surreale che abbiamo incontrato nella Capitale Europea del Salame Crudo (CESC a.k.a. Varzi) ha allungato il viaggio di ritorno che di solito sembra sempre più breve dell’andata ma stavolta no.
Proprio da li dove eravamo partiti, ci separiamo da Andrux (non io ma tutti gli altri) con uno struggente e caloroso saluto che ci riporta nelle nostre dimore, da dove ancora riusciamo a percepire la maestosità di madre natura e l’inafferrabilità dell’Alfiere Nero.
Totti